tratto da
http://www.yogamag.net/archives/2011/invdc11/mygu.shtml
Di Swami Satyananda
Swami Sivananda
nacque nel distretto di Tirunelveli nel Sud dell’India l’8 settembre 1887. Era
un discendente di un filosofo e santo famoso in India, Appaya Dikshitar
(1520–1593), un siddha e un bhakta.
Un giorno Appaya
Dikshitar andò in visita al tempio di Tirupati Balaji in cerca della visione
del divino. A quel tempo, i Vaishnaviti in India non avevano il giusto
atteggiamento verso gli Shivaiti. Appaya Dikshitar era appunto uno Shivaita, un
devoto di Shiva, e non gli fu concesso di entrare nel tempio di Tirupati
Balaji. Grazie ai suoi poteri misteriosi, alla sua bhakti e alla sua estrema devozione, il
mattino seguente i pujaris o
preti del tempio videro che a fianco di Tirupati Balaji si era materializzato
uno shivalingam. Questo
episodio portò a un radicale cambiamento nell’atteggiamento dei Vaishnaviti di
quel tempo.
Swami Sivananda
nacque da questa stirpe di grandi filosofi, santi e bhakta. Nel 1923 lasciò il suo
lavoro in Malesia, dove praticava la professione di medico in una piantagione
di Johara Bahru, e venne in India. Ricevette la sua iniziazione da Swami
Vishwananda, un sannyasin che apparteneva alla tradizione del
Sud.
Swami Sivananda si
dedicò quindi all’austerità. Praticò una sintesi di karma, bhakti, raja e jnana
yoga. Non trascurò alcun tentativo e provò tutti i grandi metodi, scoprendo
infine che il bhakti yoga era la migliore strada per l’autorealizzazione.
Tramite la ripetizione del mantra, la totale sottomissione al volere divino, la
fede incrollabile nell’essere cosmico o ishta
devata, è possibile raggiungere il livello di esperienza divina più alto e
profondo - nirvana, moksha, samadhi o darshan.
L’incontro con il mio guru
Una routine guadagnata con fatica
Liberazione dall’ego
Nel 1943 andai nel
suo ashram, dove c’erano solo alcuni bungalow qua e là, sparsi nella foresta,
tra gli scorpioni, i serpenti e le zanzare che ci tormentavano. Ma era un luogo
di grande bellezza, sulle rive del Gange, e da lì si vedevano le montagne su
cui sorgono i villaggi di Badrinath e Kedarnath, sede di due importanti templi.
Dissi a Swami
Sivananda: “Da molti anni pratico la meditazione, dhyana. Sono in grado di
dimenticare me stesso, trascendere la mia coscienza individuale, ma non riesco
ad avere alcuna esperienza interiore. E’ come se mi addormentassi, tutto qui.
Non riesco ad andare oltre perché la mia consapevolezza è completamente
dissolta in shunya, nel
vuoto.” Lui rispose solo: “Rimani nell’ashram e pratica il servizio senza
aspettarti alcuna ricompensa.” Fui confortato da questa risposta: niente japa, niente meditazione,
nulla! Mi diede una tale pace interiore che quel giorno, il 19 marzo 1943, il
mio intelletto rimase sospeso. Nell’attimo in cui fui con Swamiji, tutte le mie
domande cessarono.
C’è un bellissimo sloka che ripeto sempre. “Sotto l’ombra del
fico banyan siedono il vecchio guru e il giovane discepolo. Il guru non dice
nulla, rimane in silenzio, ma le domande e i dubbi del discepolo uno a uno
vengono risolti.” Questo è quello che mi accadde. Le domande cessarono,
l’intelletto si mise a riposo.
A casa mia non avevo
mai neanche lavato un fazzoletto; non dovevo pulire la mia stanza e non avevo
mai visto neanche una zanzara. Non sapevo come fosse fatta una zanzara e tanto
meno come pungesse! Venivo da una famiglia non vegetariana e per tre pasti al giorno,
ogni giorno, avevo mangiato cibo non vegetariano. Nell’ashram mangiavo chapati
e dhal.
Swami Sivananda era
solito restare nel suo bungalow. Veniva nell’ashram soltanto per dare
insegnamenti: due ore il mattino, un’ora il pomeriggio e un’ora la sera.
Potevamo vederlo solo per quattro ore. Il suo bungalow era chiuso a chiave e
c’era solo uno swami a cui era permesso rimanere con lui. Se qualche discepolo
aveva del lavoro in quelle ore, si perdeva l’opportunità di vederlo. Se anche
ci fosse stato un incendio nell’ashram o avessero sparato a qualcuno, la
routine era sempre: due ore, un’ora, un’ora.
Swami Sivananda era
per prima cosa una persona che cercava, che aspirava con sincerità. Non parlava
molto di se stesso. Venne e si stabilì sulla riva destra del Gange. Alcuni
giovani vivevano con lui e divennero sannyasin.
Uno di loro era Swami Paramananda, che negli Stati Uniti aveva guidato il Great
Raymond Circus. Arrivato in ashram, fondò nuovamente un circo. Preparò i
programmi e le strutture, registrò l’impresa, si preparò a pagare le tasse e
così via. Un giorno Swamiji gli chiese: “Ehi, che stai facendo?” Lui rispose:
“Swamiji, stiamo servendo te e facendo questo e quest’altro.” Swamiji pensò:
“OK, lasciamoglielo fare.” Ma a un certo punto divenne troppo.
Ogni giorno qualche
swami gli diceva: “Swamiji, oggi c’è un ospite e devi dargli udienza.” Lui
rispondeva: “Non do udienza a nessuno.” Gli dicevano: “No, no, no, è venuto da
Delhi, viene dall’I.C.S.” E lui rispondeva: "I.C.S. o I.P.C. (università
indiane ndt) per me sono tutti gelatai e sbucciapatate.” Tuttavia, gli
swami erano così insistenti che di solito cedeva.
Un giorno, Swami
Sivananda fece i bagagli e lasciò l’ashram. Non aveva denaro. Prese solo il suo dhoti, la Bhagavad Gita e il Ramayana e se ne andò. A piedi raggiunse
Rishikesh, che distava due miglia, poi Haridwar, altre quindici miglia, poi
Jaipur, ancora sei miglia, e passò la notte nella stalla di un contadino del
Punjab. La mattina, quando il contadino venne a mungere le mucche, vide questo luminoso
swami.
Swamiji era molto
alto, con le lunghe braccia che arrivavano oltre le ginocchia. Aveva piedi
grandi e una grande testa. Il contadino si prostrò di fronte a lui e gli portò roti, latte e ghee; poi volle sapere chi
fosse. Swami Sivananda non rivelò la sua identità. Disse solo: “Sono un sadhu, sto andando in
pellegrinaggio, tirtha yatra. Vengo da Haridwar.”
Ma per Swami
Sivananda era difficile mentire. Dopo un po’ gli disse: “No, vengo da
Rishikesh.” Era come quando un bambino dice al telefono: “Mio papà dice che non
è in casa.” Era fatto così: se diceva una bugia, lo si capiva subito. Se noi
siamo in grado di dire bugie senza che vengano scoperte, è perché siamo acuti.
Questa è la ragione per cui soffriamo: siamo così complicati. Swami Sivananda
disse allora: “Vengo da Rishikesh e lì c’è il mio ashram.”
Il contadino mandò
suo figlio a informare gli swami. Vennero tutti e si prostrarono toccandogli i
piedi, pregandolo di tornare. Lui rispose: “Promettetemi una cosa. Non
disturbatemi tranne che nelle ore che vi dedico, e durante queste ore se vi
dico di stare tranquilli non disturbatemi.”
Tornò all’ashram e
furono definite queste regole: per due ore faceva lezione agli allievi, mantra diksha e sannyasa. Per un’ora la sera
veniva a firmare i libri. Per un’ora, ancora la sera, veniva per i kirtan. Per tutta la vita, fino
a quando morì, non mancò mai all’ora di kirtan.
La chiamava satsang. A volte per i kirtan gli swami dell’ashram non si
presentavano: a volte ne venivano quattro, a volte due o tre, qualche volta uno
solo. Ricordo che una volta c’eravamo solo io e lui, ma lui c’era sempre.
In queste quattro
ore manteneva la massima regolarità. Nessuno poteva andare al suo bungalow a
dirgli alcunché. Se mai qualcuno gli diceva che questo o quest’altro swami era
cattivo, e questo o quest’altro buono, lui rispondeva: “Sii al di sopra di raga e dwesha,
al di sopra della gelosia e dell’odio e dell’amore. Sii semplicemente calmo e tranquillo.”
Swamiji aveva
qualità di valore, tipiche di un grande uomo, di un uomo buono. Per quanto
riguarda il suo comportamento nei confronti delle persone, era altruista,
onesto e amorevole, caritatevole e compassionevole. Non avrebbe mai offeso nessuno. Mai in
dodici anni l’ho sentito dire:” No!” Era
sempre calmo, pacifico, amorevole e dolce; mai sarcastico, mai guidato solo
dall’intelletto.
Rispettava i suoi
discepoli, come voi rispettate me o come rispettate Rama o Krishna. Non aveva
l’abitudine di chiamarmi solo Satyananda, no! Mi chiamava sempre Swami
Satyananda Maharaj, Namo Narayan.
Salutava sempre
tutti e una volta all’anno invitava gli spazzini e gli emarginati della società
ad andare all’ashram per lavare loro i piedi. Sapete quanto è difficile per un
Hindu ignorante, che vive nell’illusione, lavare i piedi di uno spazzino? Ma
Swamiji lavava i loro piedi e faceva lavare i loro piedi anche agli altri
swami. Donava loro chador (veli), dhoti (abiti Hindu), coperte, halva (dolci
fatti di semola) e puri (pane) e inchinandosi a loro in namaskara.
Una persona deve
rinunciare per prima cosa al proprio ego; solo così potrà raggiungere la
“realizzazione dell’essere”. La meditazione è una cosa giusta, Bhakti
(l’aspetto devozionale della fede) è una cosa giusta, ogni cosa è in sé giusta.
Ma quale è il corretto atteggiamento da tenere? Una persona può portare dei bei
fiori nella propria stanza, può arredarla con dei bei mobili, ma non ha poi la
vista giusta per guardarla. Qual è allora il senso di portare gli oggetti più
belli nella propria casa, se prima non si migliora la qualità della propria
vista? E quindi come si può realizzare il senso più elevato dell’essere attraverso
Bhakti o altri tipi di yoga se prima non si elimina l’ego?
Per eliminare l’ego,
si deve rinunciare a pensare solo a sé stessi, al proprio orgoglio, al proprio egoismo (abhimana).
“Io sono un grande Swami”, “Io sono un santo”, “Io sono il figlio o il nipote
della sorella del cognato del Primo Ministro”: questo è Abhimana (orgoglio,
egoismo). Ci sono differenti forme di abhimana. Anche un debosciato, un
ubriacone, un giocatore può manifestare abhimana. Abhimana è il centro della
personalità, da cui scaturiscono le proprie azioni. Abhimana deve essere
eliminato, se si vuole sperimentare la natura infinita dell’essere. Per questo
motivo Swami Sivananda ha portato tutti i suoi discepoli a fare Karma Yoga e li
ha guidati nel corso del tempo.
Segue….
Swami Sivananda
nacque nel distretto di Tirunelveli nel Sud dell’India l’8 settembre 1887. Era
un discendente di un filosofo e santo famoso in India, Appaya Dikshitar
(1520–1593), un siddha e un bhakta.
Un giorno Appaya
Dikshitar andò in visita al tempio di Tirupati Balaji in cerca della visione
del divino. A quel tempo, i Vaishnaviti in India non avevano il giusto
atteggiamento verso gli Shivaiti. Appaya Dikshitar era appunto uno Shivaita, un
devoto di Shiva, e non gli fu concesso di entrare nel tempio di Tirupati
Balaji. Grazie ai suoi poteri misteriosi, alla sua bhakti e alla sua estrema devozione, il
mattino seguente i pujaris o
preti del tempio videro che a fianco di Tirupati Balaji si era materializzato
uno shivalingam. Questo
episodio portò a un radicale cambiamento nell’atteggiamento dei Vaishnaviti di
quel tempo.
Swami Sivananda
nacque da questa stirpe di grandi filosofi, santi e bhakta. Nel 1923 lasciò il suo
lavoro in Malesia, dove praticava la professione di medico in una piantagione
di Johara Bahru, e venne in India. Ricevette la sua iniziazione da Swami
Vishwananda, un sannyasin che apparteneva alla tradizione del
Sud.
Swami Sivananda si
dedicò quindi all’austerità. Praticò una sintesi di karma, bhakti, raja e jnana
yoga. Non trascurò alcun tentativo e provò tutti i grandi metodi, scoprendo
infine che il bhakti yoga era la migliore strada per l’autorealizzazione.
Tramite la ripetizione del mantra, la totale sottomissione al volere divino, la
fede incrollabile nell’essere cosmico o ishta
devata, è possibile raggiungere il livello di esperienza divina più alto e
profondo - nirvana, moksha, samadhi o darshan.
L’incontro con il mio guru
Una routine guadagnata con fatica
Liberazione dall’ego
Nel 1943 andai nel
suo ashram, dove c’erano solo alcuni bungalow qua e là, sparsi nella foresta,
tra gli scorpioni, i serpenti e le zanzare che ci tormentavano. Ma era un luogo
di grande bellezza, sulle rive del Gange, e da lì si vedevano le montagne su
cui sorgono i villaggi di Badrinath e Kedarnath, sede di due importanti templi.
Dissi a Swami
Sivananda: “Da molti anni pratico la meditazione, dhyana. Sono in grado di
dimenticare me stesso, trascendere la mia coscienza individuale, ma non riesco
ad avere alcuna esperienza interiore. E’ come se mi addormentassi, tutto qui.
Non riesco ad andare oltre perché la mia consapevolezza è completamente
dissolta in shunya, nel
vuoto.” Lui rispose solo: “Rimani nell’ashram e pratica il servizio senza
aspettarti alcuna ricompensa.” Fui confortato da questa risposta: niente japa, niente meditazione,
nulla! Mi diede una tale pace interiore che quel giorno, il 19 marzo 1943, il
mio intelletto rimase sospeso. Nell’attimo in cui fui con Swamiji, tutte le mie
domande cessarono.
C’è un bellissimo sloka che ripeto sempre. “Sotto l’ombra del
fico banyan siedono il vecchio guru e il giovane discepolo. Il guru non dice
nulla, rimane in silenzio, ma le domande e i dubbi del discepolo uno a uno
vengono risolti.” Questo è quello che mi accadde. Le domande cessarono,
l’intelletto si mise a riposo.
A casa mia non avevo
mai neanche lavato un fazzoletto; non dovevo pulire la mia stanza e non avevo
mai visto neanche una zanzara. Non sapevo come fosse fatta una zanzara e tanto
meno come pungesse! Venivo da una famiglia non vegetariana e per tre pasti al giorno,
ogni giorno, avevo mangiato cibo non vegetariano. Nell’ashram mangiavo chapati
e dhal.
Swami Sivananda era
solito restare nel suo bungalow. Veniva nell’ashram soltanto per dare
insegnamenti: due ore il mattino, un’ora il pomeriggio e un’ora la sera.
Potevamo vederlo solo per quattro ore. Il suo bungalow era chiuso a chiave e
c’era solo uno swami a cui era permesso rimanere con lui. Se qualche discepolo
aveva del lavoro in quelle ore, si perdeva l’opportunità di vederlo. Se anche
ci fosse stato un incendio nell’ashram o avessero sparato a qualcuno, la
routine era sempre: due ore, un’ora, un’ora.
Swami Sivananda era
per prima cosa una persona che cercava, che aspirava con sincerità. Non parlava
molto di se stesso. Venne e si stabilì sulla riva destra del Gange. Alcuni
giovani vivevano con lui e divennero sannyasin.
Uno di loro era Swami Paramananda, che negli Stati Uniti aveva guidato il Great
Raymond Circus. Arrivato in ashram, fondò nuovamente un circo. Preparò i
programmi e le strutture, registrò l’impresa, si preparò a pagare le tasse e
così via. Un giorno Swamiji gli chiese: “Ehi, che stai facendo?” Lui rispose:
“Swamiji, stiamo servendo te e facendo questo e quest’altro.” Swamiji pensò:
“OK, lasciamoglielo fare.” Ma a un certo punto divenne troppo.
Ogni giorno qualche
swami gli diceva: “Swamiji, oggi c’è un ospite e devi dargli udienza.” Lui
rispondeva: “Non do udienza a nessuno.” Gli dicevano: “No, no, no, è venuto da
Delhi, viene dall’I.C.S.” E lui rispondeva: "I.C.S. o I.P.C. (università
indiane ndt) per me sono tutti gelatai e sbucciapatate.” Tuttavia, gli
swami erano così insistenti che di solito cedeva.
Un giorno, Swami
Sivananda fece i bagagli e lasciò l’ashram. Non aveva denaro. Prese solo il suo dhoti, la Bhagavad Gita e il Ramayana e se ne andò. A piedi raggiunse
Rishikesh, che distava due miglia, poi Haridwar, altre quindici miglia, poi
Jaipur, ancora sei miglia, e passò la notte nella stalla di un contadino del
Punjab. La mattina, quando il contadino venne a mungere le mucche, vide questo luminoso
swami.
Swamiji era molto
alto, con le lunghe braccia che arrivavano oltre le ginocchia. Aveva piedi
grandi e una grande testa. Il contadino si prostrò di fronte a lui e gli portò roti, latte e ghee; poi volle sapere chi
fosse. Swami Sivananda non rivelò la sua identità. Disse solo: “Sono un sadhu, sto andando in
pellegrinaggio, tirtha yatra. Vengo da Haridwar.”
Ma per Swami
Sivananda era difficile mentire. Dopo un po’ gli disse: “No, vengo da
Rishikesh.” Era come quando un bambino dice al telefono: “Mio papà dice che non
è in casa.” Era fatto così: se diceva una bugia, lo si capiva subito. Se noi
siamo in grado di dire bugie senza che vengano scoperte, è perché siamo acuti.
Questa è la ragione per cui soffriamo: siamo così complicati. Swami Sivananda
disse allora: “Vengo da Rishikesh e lì c’è il mio ashram.”
Il contadino mandò
suo figlio a informare gli swami. Vennero tutti e si prostrarono toccandogli i
piedi, pregandolo di tornare. Lui rispose: “Promettetemi una cosa. Non
disturbatemi tranne che nelle ore che vi dedico, e durante queste ore se vi
dico di stare tranquilli non disturbatemi.”
Tornò all’ashram e
furono definite queste regole: per due ore faceva lezione agli allievi, mantra diksha e sannyasa. Per un’ora la sera
veniva a firmare i libri. Per un’ora, ancora la sera, veniva per i kirtan. Per tutta la vita, fino
a quando morì, non mancò mai all’ora di kirtan.
La chiamava satsang. A volte per i kirtan gli swami dell’ashram non si
presentavano: a volte ne venivano quattro, a volte due o tre, qualche volta uno
solo. Ricordo che una volta c’eravamo solo io e lui, ma lui c’era sempre.
In queste quattro
ore manteneva la massima regolarità. Nessuno poteva andare al suo bungalow a
dirgli alcunché. Se mai qualcuno gli diceva che questo o quest’altro swami era
cattivo, e questo o quest’altro buono, lui rispondeva: “Sii al di sopra di raga e dwesha,
al di sopra della gelosia e dell’odio e dell’amore. Sii semplicemente calmo e tranquillo.”
Swamiji aveva
qualità di valore, tipiche di un grande uomo, di un uomo buono. Per quanto
riguarda il suo comportamento nei confronti delle persone, era altruista,
onesto e amorevole, caritatevole e compassionevole. Non avrebbe mai offeso nessuno. Mai in
dodici anni l’ho sentito dire:” No!” Era
sempre calmo, pacifico, amorevole e dolce; mai sarcastico, mai guidato solo
dall’intelletto.
Rispettava i suoi
discepoli, come voi rispettate me o come rispettate Rama o Krishna. Non aveva
l’abitudine di chiamarmi solo Satyananda, no! Mi chiamava sempre Swami
Satyananda Maharaj, Namo Narayan.
Salutava sempre
tutti e una volta all’anno invitava gli spazzini e gli emarginati della società
ad andare all’ashram per lavare loro i piedi. Sapete quanto è difficile per un
Hindu ignorante, che vive nell’illusione, lavare i piedi di uno spazzino? Ma
Swamiji lavava i loro piedi e faceva lavare i loro piedi anche agli altri
swami. Donava loro chador (veli), dhoti (abiti Hindu), coperte, halva (dolci
fatti di semola) e puri (pane) e inchinandosi a loro in namaskara.
Una persona deve
rinunciare per prima cosa al proprio ego; solo così potrà raggiungere la
“realizzazione dell’essere”. La meditazione è una cosa giusta, Bhakti
(l’aspetto devozionale della fede) è una cosa giusta, ogni cosa è in sé giusta.
Ma quale è il corretto atteggiamento da tenere? Una persona può portare dei bei
fiori nella propria stanza, può arredarla con dei bei mobili, ma non ha poi la
vista giusta per guardarla. Qual è allora il senso di portare gli oggetti più
belli nella propria casa, se prima non si migliora la qualità della propria
vista? E quindi come si può realizzare il senso più elevato dell’essere attraverso
Bhakti o altri tipi di yoga se prima non si elimina l’ego?
Per eliminare l’ego,
si deve rinunciare a pensare solo a sé stessi, al proprio orgoglio, al proprio egoismo (abhimana).
“Io sono un grande Swami”, “Io sono un santo”, “Io sono il figlio o il nipote
della sorella del cognato del Primo Ministro”: questo è Abhimana (orgoglio,
egoismo). Ci sono differenti forme di abhimana. Anche un debosciato, un
ubriacone, un giocatore può manifestare abhimana. Abhimana è il centro della
personalità, da cui scaturiscono le proprie azioni. Abhimana deve essere
eliminato, se si vuole sperimentare la natura infinita dell’essere. Per questo
motivo Swami Sivananda ha portato tutti i suoi discepoli a fare Karma Yoga e li
ha guidati nel corso del tempo.
Segue….
